Franco Mancini: il portiere che sapeva volare.

Franco Mancini: il portiere che sapeva volare.

Negli ultimi mesi, nelle piazze social dell’Italia pallonara che noi tutti siamo soliti frequentare, avanza dirompente la polemica, a mio modo di vedere sterile ed inutile, riguardo alla costruzione del gioco dal basso, chiamando in causa anche il portiere nella manovra offensiva. Un tipo di calcio che prevede quindi un estremo difensore abile con i piedi e capace di giocare palla a terra, costruendo l’azione da dietro; in modo tale da guadagnare metri di campo e orchestrare al meglio l’avanzata d’attacco. Uno stile offensivo molto in voga già dallo scorso decennio in Europa, ma che noi italiani – pionieri della “scuola” del catenaccio e del contropiede – non siamo abituati ancora a tollerare, nonostante i  tanti vantaggi di questo sistema, proposto dai cosiddetti “giochisti”. E se questo dibattito pare attualità, devo confutare le certezze di molti “professori” appartenenti alla “vecchia scuola”, in quanto, ormai trent’anni fa, c’era una squadra che giocava questo tipo di calcio e trovava la massima realizzazione nel proprio portiere, che di fatto diveniva il primo attaccante.

Lo spettacolo offerto da un taciturno tecnico boemo prevedeva un 4-3-3 spregiudicato, che culminava con un tridente offensivo da favola: Rambaudi, Baiano e Signori. Era il cosiddetto Foggia di Zeman, una squadra che ha certamente raccolto meno di quanto ha dimostrato, ma che sicuramente resterà ancora per molti anni negli annali del calcio mondiale; un po’ come modello precursore di una filosofia di pensiero all’avanguardia. Il boemo dirà in seguito:  “il nostro era un portiere moderno, bravo anche con i piedi. Le nostre azioni partivano da lui.” Quel numero uno, tanto strambo quanto decisivo, sarà al fianco di Zeman, anche dopo la carriera da calciatore; sarà infatti il preparatore dei portieri di quel Pescara, fucina di talenti niente male.

Mancio cresce nel rione Bottiglione di Matera ed è lì che ha il primo approccio con il calcio giocato. Sviluppa una forte propensione per l’attacco, che gli servirà poi per interpretare al meglio il ruolo di libero ma tra i pali, o meglio dire di portiere libero, senza troppi vincoli. Da attaccante a portiere, il passo è breve e lo deve a suo fratello che gli consiglia il cambio di ruolo. Franco Mancini da Matera come José René Higuita, portiere colombiano che ricordiamo per l’abilità nel dribbling e per le fantasiose performance ad Italia ‘90.

Dal ‘87 al ‘97 Mancini con il Foggia contribuirà alla scalata dalla C1 alla massima serie con circa 265 presenze all’attivo, praticamente il quarto calciatore più presente della centenaria storia rossonera.

Diciannove aprile duemila dodici, la giunta comunale di Foggia intitola la Curva Nord del Pino Zaccheria al più grande portiere mai visto tra i pali allo Zac. É una sorta di legittimazione di quanto già avveniva in precedenza, un atto di consacrazione ufficiale di un modo di essere, prima ancora di vedere, il gioco del calcio qui a Foggia. La curva lo invocava a gran voce perché “Franco è uno di noi” non è solo un coro da stadio cantato da centinaia di ultras, ma è una maniera libera di intendere la vita e vivere le passioni fino a farci gioire. Franco era davvero uno di noi, era un uomo del popolo, era quel ragazzo che ce l’aveva fatta con la propria passione. Un uomo che ha lasciato come eredità il proprio modo di essere, semplicemente questo; ma più importante di tanti trofei rimasti a prendere polvere sui scaffali di grandi e piccoli club.

Questa è la storia di Franco Mancini, il portiere cresciuto nel mito del reggae e di Bob Marley. Numero uno spavaldo, ma ragazzo dal cuore d’oro dai capelli ricci. Ribelle per natura, campione per scelta. I racconti della gente tratteggiano un ragazzo che era solito frequentare i locali foggiani, scambiare qualche chiacchiera con il popolo rossonero e suonare la sua amata batteria, inseguendo il suo mito giamaicano. Franco amava i rischi e tutto ciò che essi comportavano, sul campo e nella vita. Nato nella bianca Matera e maturato tra il mare di Manfredonia e l’accogliente Foggia, Franco toccherà le vette del grande calcio con varie maglie, rimanendo per sempre segnato ed affezionato alla nostra terra; che ha saputo renderlo grande, grazie alle sue tante piccolezze.

Giuseppe Toti scriveva di Franco sul Corriere della Sera che: “il batterista e il portiere hanno una cosa in comune: se sbagliano sono perduti.” E Mancio lo sa bene e sbaglia poco, e quando può, azzarda pure, chiedere a Van Basten per informazioni. É il ventiquattro maggio millenovecento novantadue, Foggia contro Milan, quando Mancini con un sobrero supera il forte attaccante olandese e porta il suoi avanti con il possesso di palla. Un gesto utile, non per deridere l’avversario bensì per “improvvisare” il suo credo in maniera semplicemente poetica.

Trenta marzo del duemiladodici, Franco si spegne nella sua casa a Pescara. Quarantatre anni e un addio amaro da digerire per Chiara, sua moglie e per i suoi figli. Matera, Foggia e Pescara si stringono attorno al dolore della famiglia Mancini, in quel torrido giorno di fine marzo. Anche il suo secondo padre – Zdeněk Zeman- non trattiene le lacrime e si lascia logorare dal dolore per la perdita di Orso; così soprannominato per le poche parole che spendeva nello spogliatoio perché preferiva parlare sul campo.

Franco Mancini: il portiere che sapeva volare.

Bob Marley, il suo cantante preferito, diceva che: “tutti nascono unici solo, alcuni continuano ad esserlo”, e devo dire, caro Franco, che tu ci sei riuscito alla grande.

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